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FIGLI DI ROMA

EREDI DEL

RISORGIMENTO

Scopriamo la storia della Comunità
degli ebrei di Roma, chiamati Benè Romì

Scopriamo
la storia della Comunità
degli ebrei di Roma, chiamati Benè Romì

Il rapporto tra l’Italia e gli ebrei italiani è stata nei secoli la misura del progresso civile dell’intero Paese e uno dei passaggi-chiave del Risorgimento.

In occasione dell’anniversario della Breccia di Porta Pia scopriamo la storia della Comunità degli ebrei di Roma, chiamati Benè Romì.

Il rapporto tra l’Italia e gli ebrei italiani è stata nei secoli la misura del progresso civile dell’intero Paese e uno dei passaggi-chiave del Risorgimento.

CHI SONO

I BENè ROMÌ?

Benè Romì, in ebraico figli di Roma, è il termine con il quale si identificano gli appartenenti alla Comunità capitolina, che indica una tradizione liturgica (minhag).

Un rito con una specificità così particolare da essere considerato distinto dalle altre correnti principali e più note dell’Ebraismo – i sefarditi e gli ashkenaziti.

 

La proclamazione di Roma Capitale del Regno, la fine dello Stato pontificio e la Breccia di Porta Pia – della quale quest’anno si celebra il 152esimo anniversario – sono passaggi storici fondamentali per la nascita dello spirito identitario del popolo italiano, ma anche i primi eventi a unire i romani di ogni fede: nel 1870 termina l’era dei Ghetti e inizia l’equiparazione giuridica degli ebrei agli altri cittadini. 

Con il Risorgimento si stabilisce più di una semplice alleanza tra gli ebrei e i patrioti laici e cristiani. Ma il ricongiungimento della Città Eterna all’Italia ha per la Comunità romana un significato e un valore ancora più profondo, che gli ebrei onorano con una partecipazione entusiasta alla vita civile della nuova Nazione dopo essersi battuti per l’emancipazione.

Oggi, che le vecchie e le nuove discriminazioni sono finalmente fuori dalla legge, conoscere la Storia può renderci cittadini più orgogliosi e consapevoli: il miglior riconoscimento a quel momento di altissima dignità e ai suoi generosi attori. Compresi quelli che ne avevano pagato il prezzo più alto: i “figli di Roma”.



In che modo la storia degli ebrei si lega a quella d'Italia?

In che modo la storia degli ebrei si lega a quella d'Italia?

La proclamazione di Roma capitale del Regno, la fine dello Stato pontificio e la Breccia di Porta Pia – della quale quest’anno si celebra il 152esimo anniversario – non sono solo passaggi storici fondamentali per la nascita dello spirito identitario del popolo italiano, ma sono i primi eventi che unirono i romani di ogni fede. Il 1870 equiparò giuridicamente gli ebrei agli altri cittadini e portò all’abbattimento dei cancelli del ghetto nel quale erano rinchiusi da secoli.

Con il Risorgimento già si era stabilita più di una semplice alleanza tra gli ebrei e i patrioti laici e cristiani. Ma il ricongiungimento della Città Eterna all’Italia ha per la comunità romana un significato e un valore ancora più profondo, che gli ebrei onorarono con una partecipazione entusiasta alla vita civile della nuova nazione dopo essersi già battuti per l’emancipazione.

Oggi, che le vecchie e le nuove discriminazioni sono finalmente fuori dalla legge, conoscere la storia può renderci cittadini più orgogliosi e consapevoli, ed è il miglior modo di onorare quel momento di altissima dignità riconoscendo un ruolo a tutti i suoi generosi attori. In particolare quelli che ne avevano pagato il prezzo più alto: i Benè Romì, i figli di Roma.

RIPERCORRIAMO INSIEME
I SECOLI

Document
  • INTRO
  • ANTICA ROMA
  • NASCITA CRISTIANESIMO
  • IL MEDIOEVO
  • I GHETTI
  • REPUBBLICA ROMANA
  • IL RISORGIMENTO
  • LA PRESA DI ROMA
  • LA LIBERAZIONE
  • L'UNITÀ D'ITALIA


FIGLI DI ROMA
EREDI
DEL RISORGIMENTO

Gli ebrei risiedono a Roma dal II secolo avanti l’era cristiana. “Benè Romì” (in Ebraico, “figli di Roma”) è un’espressione che indica un minhag, una tradizione liturgica, ma anche un rito al quale è riconosciuta una specificità così particolare da essere distinto dalle altre correnti principali dell’Ebraismo: i sefarditi (origine spagnola e portoghese) e gli ashkenaziti (dell’Europa centrorientale). Oggi che turisti da tutto il mondo camminano per le vie cariche di Storia del centro di Roma - alla scoperta delle meraviglie del Museo ebraico, dei sapori di una cucina antica e della bellezza di un Portico d’Ottavia libero dal suo essere stato una delle porte del Ghetto - quasi nessuno immagina il legame tra la Città e suoi cittadini ebrei. Oggi, a leggere di un “civis romanus sum” pronunciato con orgoglio, dovremmo ricordare che la fierezza è anche e soprattutto legata ai diritti che quella cittadinanza riconosce ai residenti ebrei, a differenza di ciò che era stato per molti secoli. Un’appartenenza che, per i “figli di Roma” e d’Italia, da quel 20 settembre 1870 potrà finalmente esprimersi appieno.


ALBORI
DELLA PRESENZA EBRAICA
A ROMA

La Comunità capitolina è la più antica d'Europa, con una presenza ininterrotta fin dalla metà del II secolo a.e.v. Con 11 sinagoghe, un importante contributo economico e una forte influenza culturale, la presenza degli ebrei suscita reazioni positive - come l’ottenimento della cittadinanza - ma anche negative, come alcune restrizioni al culto. I documenti storici testimoniano l’invio degli ambasciatori da parte dei Maccabei, la profonda amicizia e alleanza con Giulio Cesare. Ma anche i primi contrasti militari tra Roma e la Giudea sotto Pompeo, che si inserisce nelle lotte dinastiche e dà inizio a una vera e propria occupazione del territorio. Fino all'annientamento della resistenza giudaica (66-135 dell'Era cristiana), che culmina con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme a opera di Tito, raffigurata sull’Arco di trionfo alle pendici del Palatino. I romani deportano migliaia di prigionieri come schiavi, insieme a un bottino enorme. La demolizione dell’edificio sacro più importante - il Bet HaMikdash - determina l'inizio della diaspora e il secondo esilio dopo quello babilonese.


ALBORI
DELLA PRESENZA EBRAICA
A ROMA

Ciononostante, gli ebrei mantengono un forte attaccamento alle prescrizioni della Torah (i primi cinque Libri della Bibbia), osservando precetti come la dedica del sabato alla dimensione spirituale. Quando si stabiliscono nelle colonie che beneficiano di un riconosciuto status culturale da parte dei Romani, la loro condizione non è dissimile da quella di altri popoli che compongono il tessuto dell’Impero, composto da numerosissime altre espressioni culturali e religiose. Certo, ci sono casi di proibizioni temporanee, espulsioni o tensioni. Ma neanche questi momenti più drammatici modificano la condizione giuridica ebraica nel resto dell’Impero, che per tutto il III secolo rimane sostanzialmente stabile. Alle comunità viene riconosciuto il diritto di assemblea e la personalità giuridica, sinagoghe e cimiteri sono tutelati, e scuole, biblioteche, ospedali, ricoveri e mercati vengono favoriti. Gli ebrei romani sono perfettamente integrati nella società: fanno parte dell’Esercito, ​​lavorano nei pubblici uffici e nei diversi settori della produzione e della distribuzione delle merci, li troviamo perfino tra i mimi e i gladiatori. Ma anche custodi di antiche tradizioni, uniti da un calendario di rimembranze e celebrazioni che ne scandiscono lavoro, preghiera e riposo. Tant’è che già Filone segnala la loro fedeltà alle antiche leggi patrie, rispettate assieme a quelle delle città nella quale si vive, si lavora e si crescono i figli. Di più: pur non prevedendo una dimensione di proselitismo, la religione ebraica esercita una profonda attrazione e, nei secoli, anche il contributo letterario verrà considerato importante.


IL CRISTIANESIMO
DIVENTA RELIGIONE
DELL'IMPERO

Con il Concilio di Nicea del 325 e.v., i matrimoni misti sono proibiti e agli ebrei viene negata la possibilità di avere schiavi cristiani e pagani. Si aggiunge l’interdizione alle funzioni pubbliche e all'Esercito, mentre si diffonde l’idea che gli ebrei - gente perversa e contaminata - appartengano a una “setta” nefanda. In Oriente e in Occidente vengono distrutte o confiscate sinagoghe e una esasperata propaganda porta a numerosi attacchi alla popolazione ebraica. A volte, gli ebrei trovano degli illustri difensori - come Papa Gregorio I Magno (590-604), che nella bolla Sicut Judaeis afferma che essi non devono essere disturbati perché la conversione deve avvenire con la persuasione e non con la forza. Nel periodo compreso tra l’anno Mille e quello di istituzione del Ghetto di Roma, 98 Papi hanno con la Comunità un rapporto oscillante ma, nonostante tutto, la convivenza cittadina non è mai messa in pericolo: la posizione ufficiale segue la visione di Sant’Agostino, per il quale la Sinagoga deve essere subordinata alla Chiesa ma non distrutta in quanto testimone della fede dalla quale ha preso origine il Cristianesimo - situazione destinata a cessare alla fine dei tempi, con la riunificazione alla Chiesa e la redenzione degli ebrei. Da quel momento in poi, la permanenza degli ebrei a Roma è possibile solo grazie a una continua negoziazione della loro posizione in seno a una società, in generale molto violenta, trovando occasionalmente interlocutori disponibili anche fra le autorità ecclesiastiche.


IL MEDIOEVO:
LE GRANDI
DISCRIMINAZIONI

Durante il Medioevo, la presenza ebraica a Roma si concentra anche sulla riva opposta del Tevere, davanti all'Isola Tiberina: il ponte Quattro Capi, che la collega alla terraferma, prende il nome "Pons Judeorum" o "Ponte degli Ebrei". Molti eventi traumatici per la città di Roma vengono in qualche modo attribuiti agli ebrei, con disordini popolari che provocano la morte di molti di loro. (La stessa dinamica che, dovendo o volendo individuare in qualcuno la causa di mali come la siccità o un’epidemia, si ripeterà nei confronti di tante, troppe donne, accusate di stregoneria e arse vive tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Seicento.) E questo anche se in assenza di una “linea” ufficiale: i Papi non sono contro o a favore della presenza ebraica, e il rapporto - legato a considerazioni teologiche, economiche e persino personali - rimane complesso. Mentre, di fronte ad altre realtà come l’omosessualità, tra il VI e il XV secolo si passa dall’equipararla all’adulterio all’intolleranza e, infine, alla pura ostilità. Per non dimenticare i lebbrosi, secondi nella persecuzione solo agli ebrei perché “marchiati” per punizione divina, gli stranieri perché una minaccia, gli infermi incurabili perché dominati dal Male e i bambini perché incapaci e dunque da ignorare o sfruttare. E neanche i Valdesi, perseguitati come eretici dalla Chiesa cattolica fin dai primi anni del Duecento - roghi compresi -, che si vedono proibire frequenza delle scuole pubbliche, esercizio delle professioni, possesso di beni immobili fuori dal “ghetto alpino” e culto consentito soltanto nei templi autorizzati. Una Comunità il cui destino si intreccia con quello degli ebrei d’Italia.


L'ISTITUZIONE DEI GHETTI

Il 14 luglio del 1555, Paolo IV emana la bolla “Cum Nimis Absurdum” - uno sconvolgimento, che cambia il destino degli ebrei. Costretti a svendere i loro beni e rinchiusi. A Roma, in una sola strada. Luoghi angusti, malsani, nei quali può esserci una sola sinagoga. Proibita l’assunzione di nutrici o domestici cristiani, persino la conversazione con i cristiani. E anche ogni commercio, a eccezione di quello degli stracci: solo nel tempo riescono a ottenere concessioni in ambito economico e finanziario. Appena fuori dai cancelli del Ghetto vi sono chiese in ogni direzione e, dopo qualche anno, entra in uso la pratica delle prediche coatte, alle quali gli ebrei devono assistere ogni Sabato - il giorno a loro più santo - per prendere coscienza dei propri errori e convertirsi. Svariate descrizioni, soprattutto da parte di visitatori, riferiscono del sovraffollamento inimmaginabile, delle condizioni igieniche disastrose e della promiscuità del cosiddetto “serraglio degli ebrei”. Dall’istituzione del Ghetto deriva inoltre una speculazione immobiliare da parte di istituti religiosi e famiglie nobili, in seguito mitigata dall'introduzione dello jus gazagà (una sorta di equo canone). I pontefici successivi modificano le prime disposizioni: in positivo, come Sisto V, o in negativo, come Pio VI. Comunque, e nonostante alcune brevi interruzioni, il Ghetto durerà fino al 1870.


L'ISTITUZIONE DEI GHETTI


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE

L’elezione di Pio IX nel 1846 coincide con la grande ondata liberale che sta attraversando tutta l’Europa. Il Papa nomina una commissione che esamina i reclami degli ebrei e permette loro di vivere anche in altri quartieri della città, mentre il capopopolo Ciceruacchio organizza una festa di fratellanza tra gli ebrei e i romani.


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE

Pio IX delibera l’abbattimento delle porte del Ghetto e, il 16 aprile 1848, le lacrime della Comunità sono di gioia. Gli ebrei possono avere degli esercizi commerciali, circolare anche di notte e persino entrare nella Guardia civica. Nel 1849, nel breve arco della Repubblica Romana che abolisce la segregazione e apre alla libertà di culto, alcuni dei loro esponenti partecipano al Governo civico - prendendo parte con slancio a questo effimero ma glorioso momento risorgimentale. A rendere la situazione più ingarbugliata sono trasteverini, monticiani e regolanti, che non approvano la decisione di Pio IX di abbattere le porte che di notte vietano l’entrata e l’uscita dal Ghetto. Alla loro opposizione, manifestata anche con aggressioni ed episodi di violenza, non mancano motivazioni più pragmatiche - anche se la spinta maggiore arriva dal pregiudizio.


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE

Quasi tutti i progressi si dissolvono nel 1850 con la caduta della Repubblica e il ritorno dall’esilio di Pio IX, che ne annulla molti atti e ripristina la pena di morte e l’isolamento degli ebrei, pur mantenendo aperto giorno e notte un Ghetto ormai senza portoni. Nonostante precarietà e miseria, la popolazione degli ebrei romani sale a circa 5.000 persone. Le condizioni del Ghetto appaiono però sempre più inaccettabili, tanto da generare un dibattito nazionale. Per Pio IX, riconoscere i diritti civili agli ebrei significa accreditarsi come Pontefice riformatore e progressista davanti a un’opinione pubblica europea che, con la rivoluzione borghese, ha fatto degli enormi passi avanti. Dalla prospettiva dei Padri risorgimentali invece, nel periodo che corre tra la Rivoluzione francese e il liberalismo italiano, la soluzione della questione israelitica non è soltanto uno degli obiettivi programmatici ma anche uno degli elementi di verifica della portata del progresso civile del Paese che sta nascendo.


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE

Il momento più difficile è il “Caso Mortara”, che nel 1858 vede il battesimo forzato del piccolo Edgardo, il rapimento dalla propria famiglia e il suo trasferimento a Roma sotto la custodia papale, per essere allevato come cattolico. C’erano già stati dei battesimi di bambini ebrei strappati alle famiglie, ma il caso Mortara fece scalpore - per una maggiore sensibilità rispetto alla condizione degli ebrei ma anche per la crescente polemica anticlericale in funzione risorgimentale.


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE


TIMIDI SEGNI DI EMANCIPAZIONE

La reazione indignata dell'opinione pubblica internazionale e della grande Stampa liberale, affiancata all’estero da voci di sacerdoti, non muta la decisione di Pio IX sul destino del piccolo Mortara, ma alimenta l’ipotesi dell’offensiva allo Stato pontificio. Dodici anni dopo, e meritandosi una Medaglia al Valore, alla presa di Porta Pia combatterà anche il Tenente dei Bersaglieri Riccardo Mortara, fratello di Edgardo.


GLI EBREI E
IL RISORGIMENTO

“Si gettarono nella mischia come Ebrei e ne uscirono come Italiani”: questo il sentimento dei giovani delle comunità che si uniscono alla lotta dei patrioti. Finalmente, gli ebrei di Trieste, Livorno, Modena e di tutta la Penisola si sentono parte di un Paese che non li discrimina più. Il Risorgimento italiano permette a quegli uomini confinati e privati dei diritti fondamentali di combattere per un ideale di emancipazione, loro e della Nazione. Un’Italia unita e indipendente, per la quale battersi e - se necessario - morire. La partecipazione degli ebrei sia al Risorgimento, sia alla Grande Guerra del secolo entrante è considerevole: quando la Nazione ha bisogno di essere difesa, gli ebrei rispondono in massa e con valore, riconosciuto da un numero notevole di onorificenze. Più di una semplice alleanza tra gli ebrei e i patrioti laici e cristiani - in fondo, tra gli italiani. Con Giuseppe Mazzini c’è un vero e proprio scambio di valori: la Comunità vede in lui la speranza di esistere non come sussistenza bensì nella pienezza dei diritti e delle libertà civili; Mazzini, una fonte di profonda ispirazione - sufficiente a proporre una lettura risorgimentale della Bibbia, sintetizzata nel suo celebre “Dio e Popolo”. Ma anche con Massimo d’Azeglio che, nel 1848, pubblica a Firenze il saggio “Sull’emancipazione civile degli Israeliti”. Valori nuovi, espressi con forza anche verso la seconda più antica comunità sulla Penisola: quella dei Valdesi. Che festeggeranno il riconoscimento dei loro diritti civili e politici dal 17 febbraio 1848, data delle Lettere patenti del Re di Sardegna Carlo Alberto, seguite il 29 marzo dello stesso anno da un analogo provvedimento nei confronti degli ebrei. Sono in tanti a battersi per i diritti civili dei Valdesi e degli Israeliti - e lo dimostra una petizione del 23 dicembre 1847, primo firmatario Roberto d’Azeglio, al quale si aggiungono (tra altri 600) Camillo Cavour e 75 ecclesiastici cattolici. Il decennio 1860-1870 è assai travagliato. L’unificazione arriva nel breve spazio di due anni, come un fatto inatteso e improvviso nel suo realizzarsi. Vi è un grave problema politico di fondo (quello, fatta l’Italia, di “fare gli italiani”) e bisogna mettere insieme leggi, sistemi fiscali, monete, sistemi di misura ma anche mentalità, tradizioni e costumi diversi. Senza lasciare fuori quei “figli” che avevano pagato nei secoli il prezzo più alto. La conquista è imminente: il nuovo Stato liberale e laico, pronto alla pluralità dei culti e alla libertà religiosa, è alle porte di Roma.


GIACOMO SEGRE E
LA BRECCIA DI PORTA PIA

Non sarebbe stato facile: la città era stata proclamata Capitale del Regno nel 1861, ma le successive prove di trasferimento delle carte e del Governo non avevano dato risultati. Caduto l’imperatore Napoleone III di fronte alla Prussia il 2 settembre 1870, l’entrata delle truppe italiane è da più parti considerata prossima. Vittorio Emanuele II chiede al Pontefice di accettare l’ingresso degli italiani a Roma ma, dalla città-simbolo del Cattolicesimo, il Papa intende mostrare al mondo intero la sua opposizione. Riusciti vani i tentativi negoziali, il 20 settembre 1870 il generale Cadorna attacca la città. Secondo una tradizione che non trova riscontro documentale, Giacomo Segre, il valoroso artigliere ebreo trentunenne viene scelto ad interpretare il compito più delicato per via della sua religione, indifferente alla scomunica papale già annunciata da Pio IX per chiunque avesse ordinato di aprire il fuoco sulla città. In realtà, le sue già comprovate capacità sono testimoniate sia dal Diario storico del Generale Cadorna, sia dalla memoria redatta dal Generale Luigi Pelloux - in quel momento, Comandante di Giacomo -, sia dalle parole del Generale Cosenz.


GIACOMO SEGRE E
LA BRECCIA DI PORTA PIA

Le Divisioni ricevono l’ordine di iniziare il fuoco subito dopo le 5, contro diversi punti delle Mura Aureliane. La V Batteria del Capitano Segre, incaricata del fuoco principale, viene posizionata nei giardini di Villa Albani, a 500 metri dal punto pensato per la Breccia. Alle 5:20, Giacomo dà l’ordine di attacco - all’inizio con fuoco cadenzato, poi per salve - e, subito dopo, alla sua azione si aggiungono la II e VIII Batteria. Alle 9:30 il varco è di circa 30 metri ma lui continua a colpire, per dare più spazio ai Bersaglieri in attesa. Dopo 888 colpi, la Breccia è sufficiente. “La V Batteria ebbe con i suoi tiri gli effetti più utili che si potessero immaginare… meritò gli applausi di quanti poterono osservare la calma, la tranquillità e il sangue freddo” (Pelloux). “Per quanto questa Batteria non dipendesse dai miei ordini, pur tuttavia, avendo avuto luogo di osservarla da vicino, mi sento il dovere di lodarne la bravura e la perizia per gli ammirabili effetti prodotti” (Cosenz). Verso le 10, appare la bandiera bianca. Purtroppo, mentre le truppe italiane si avvicinano, dei difensori pontifici aprono il fuoco - uccidendo il Maggiore Giacomo Pagliari e ferendo altri soldati. Il 12º Battaglione Bersaglieri suona la carica e, poco dopo, la bandiera bianca viene issata lungo tutta la linea delle mura.


LA LIBERAZIONE

Alle 17:30, 12 ore dopo il primo ordine del Capitano Segre, il generale Kanzler e il Capo di Stato maggiore Fortunato Rivalta firmano la Capitolazione. Il 20 settembre 1870 segna finalmente l’unione di Roma al Regno d’Italia, del quale diventa Capitale, portandosi dietro la completa equiparazione degli ebrei agli altri cittadini: un momento e un ricordo di esultanza per i Benè Romì, che in questa data celebrano la liberazione dai muri fisici e non. Quest’anno, per la 152° volta: 20 settembre 1870 – 20 settembre 2022. Il Generale Cadorna viene accolto con gioia da gran parte dei romani, che aveva già manifestato la propria insofferenza verso il potere papale. Il Corso è imbandierato a festa e le luminarie rimangono accese fino a tarda notte.


LA LIBERAZIONE

Accanto all’esultanza del popolo romano, c’è quella della Comunità ebraica - che vede nella Breccia l’abbattimento di tutti gli ostacoli che, a 80 anni dalla Rivoluzione Francese, vietavano un’uguaglianza e una libertà identificate con il governo istituzionale del Regno d’Italia. Perché, nel 1870, la discriminazione esiste solo sotto l’ombrello del Papa: gli ebrei piemontesi erano emancipati fin dal 19 giugno 1848, con l’approvazione in Parlamento di una legge secondo la quale “la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all’ammissibilità alle cariche civili e militari” - disposizioni estese anche agli ebrei residenti nelle località in seguito annesse al Regno di Savoia. Il ricongiungimento della Città Eterna all’Italia ha dunque per la Comunità ebraica romana un significato e un valore ancora più profondo e più intenso, che - dopo secoli di concessioni seguite ogni volta da repressioni - mai avrebbe potuto ancora sperare. Cinque giorni dopo, il 25 settembre 1870, gli ebrei romani inviano un messaggio a Re Vittorio Emanuele II, offrendo al Sovrano “l’omaggio della loro immensa gratitudine”, e rivolgono il loro ringraziamento “come italiani, come romani e come israeliti”. Questa dichiarazione racchiude le coordinate della raggiunta pari dignità, basata sull’identificazione alla Nazione, l’integrazione civile e un ampio ridimensionamento dell’Ebraismo a semplice fede tra le altre, secondo l’orientamento già professato da molti ebrei europei emancipati. La nuova libertà innesca significativi processi di trasformazione e, pur con scarsi mezzi finanziari e limitati strumenti legislativi, nel periodo successivo alla chiusura del Ghetto la Comunità romana è percorsa da forti fermenti. Con la fine del potere temporale del Papato, la popolazione ebraica si diffonde in zone cittadine sempre più lontane dall’antico rione e si adegua ai tempi moderni, orientandosi verso professioni che soppiantano le vecchie (imposte o limitate) occupazioni. In poche parole, gli ebrei romani cercano di diventare uguali agli altri. Alcuni non ci riescono, continuando a vivere pressoché nelle stesse umili condizioni; altri, sì - guadagnandosi posizioni di rispetto nelle professioni e nella società.


IL RICONGIUNGIMENTO
CON I CITTADINI
DI ROMA

L’11 ottobre 1870, una deputazione di cittadini romani presenta al Re Vittorio Emanuele II i risultati del plebiscito che unisce Roma e il Lazio al Regno d’Italia. Tra i membri c’è Samuel Alatri - uno degli esponenti più autorevoli della Comunità ebraica romana, che più volte aveva perorato la causa degli ebrei nelle udienze accordategli da Pio IX. Due giorni dopo, il decreto di completa equiparazione degli ebrei romani agli altri cittadini viene pubblicato e, a novembre, Alatri e Settimio Piperno entrano in Campidoglio come consiglieri comunali. A soli due mesi dalla Breccia, nove ebrei verranno eletti al Parlamento dell’Italia Unita e, nel 1874, i deputati saranno undici. Consapevoli delle passate sofferenze ma anche fieri di averle superate, per l’ultima volta gli ebrei di Roma si dichiarano tali: d’ora in poi, ricorderanno questa distinzione solo nei Templi - perché i “figli di Roma”, prima di tutto, si sentono italiani e romani. L’uguaglianza li porta anche nel Corpo della Guardia nazionale, dove raggiungono degli alti gradi. Con un valore risorgimentale in più: il rispetto verso tutte le espressioni religiose - che fa sì che, in occasione del giuramento di alcuni ufficiali, si provveda ad assicurare una Bibbia ebraica. Nel frattempo, la storia degli ebrei della Penisola e della Capitale desta un accresciuto interesse: il Console francese esprime il desiderio di visitare la sinagoga e un Tenente di fanteria, commosso dalle “continue e basse persecuzioni di antisemiti fanatici contro il nobile popolo Israelitico”, si erge a suo paladino sebbene appartenente ad altra religione. A rimanere difficili sono i rapporti con i religiosi cattolici, che mal si rassegnano alla perdita della posizione di assoluta preminenza a lungo mantenuta e faticano ad adattarsi alla nuova situazione. In mezzo a tanto entusiasmo, di tanto in tanto si riaffacciano consuetudini vecchie di secoli e dure a morire: il 30 settembre 1879, un gruppo di popolani aggredisce gli ebrei di passaggio dalla Bocca della Verità, per accompagnare i loro morti al cimitero dell’Aventino, con un “comportamento tanto più indegno di uomini civili quant'è più ovvio il rispetto verso i defunti anche in mezzo ai popoli barbari”.


L'EREDITÀ
DELLA BATTAGLIA

A distanza di 152 anni, abbiamo tanto per cui essere grati e molto da riscoprire. Perché quello che oggi consideriamo normalità, dei diritti e delle libertà civili, non lo è stato per tanto tempo. Perché quel momento, fatto di coraggiosi che si batterono per tutti, è la nostra migliore anima - come persone, come italiani, come Nazione. Qualche decennio più tardi, la partecipazione ebraica anche alla Prima guerra mondiale sarà considerevole: nel momento in cui la Patria, alla cui costituzione la componente ebraica aveva risposto con entusiasmo, ha bisogno di essere difesa, gli ebrei rispondono in massa, riportando un numero notevole di onorificenze. Purtroppo, il pregiudizio antiebraico non muore con il Risorgimento ma - tempo due generazioni - si trasforma in antisemitismo. Nel 1938, sarà Vittorio Emanuele III, il Re che aveva inaugurato il Tempio Maggiore nel 1904, a siglare le infami Leggi razziali. Quanto diventa prezioso ritornare al lascito dei Padri risorgimentali e dei tantissimi che si alzarono insieme, anche al prezzo della propria vita, per l’equità, il reciproco rispetto e la piena cittadinanza? Un’appartenenza che, per i “figli di Roma” e d’Italia, da quel 20 settembre può finalmente esprimersi appieno. Dalle Arti alla Scienza, dalle vecchie e nuove maestranze alle professioni, dal Parlamento alle amministrazioni locali, per 152 anni l’elenco è lungo e di valore. In alcuni casi, di pubblico riconoscimento e onorata memoria; in altri, sconosciuto o dimenticato: quanti di noi, passeggiando per Roma, sanno ancora che il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia, il percorso archeologico tra l’Aventino e il Celio e persino lo stadio Flaminio sono stati voluti e inaugurati sotto il secondo mandato dell’ebreo Ernesto Nathan, “il miglior Sindaco di Roma”, che raccoglie l’eredità mazziniana e, in soli sei anni, cambia il volto della Città? Oggi, sentire nostri e vivere pienamente i valori risorgimentali è il miglior modo di onorare quel momento di altissima dignità riconoscendo un ruolo a tutti i suoi generosi attori. In particolare quelli che ne avevano pagato - e ne pagheranno ancora purtroppo - il prezzo più alto: i Benè Romì, i figli di Roma e gli ebrei d’Italia.

ANTICA ROMA

Albori della presenza ebraica a Roma

La Comunità capitolina è la più antica d’Europa, con una presenza ininterrotta fin dalla metà del II secolo a.e.v. Con 11 sinagoghe, un importante contributo economico e una forte influenza culturale, la presenza degli ebrei suscita reazioni positive – come l’ottenimento della cittadinanza – ma anche negative, come alcune restrizioni al culto. I documenti storici testimoniano l’invio degli ambasciatori da parte dei Maccabei, la profonda amicizia e alleanza con Giulio Cesare. Ma anche i primi contrasti militari tra Roma e la Giudea sotto Pompeo, che si inserisce nelle lotte dinastiche e dà inizio a una vera e propria occupazione del territorio. Fino all’annientamento della resistenza giudaica (66-135 dell’Era cristiana), che culmina con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme a opera di Tito, raffigurata sull’Arco di trionfo alle pendici del Palatino. I romani deportano migliaia di prigionieri come schiavi, insieme a un bottino enorme. La demolizione dell’edificio sacro più importante – il Bet HaMikdash – determina l’inizio della diaspora e il secondo esilio dopo quello babilonese.  
Ciononostante, gli ebrei mantengono un forte attaccamento alle prescrizioni della Torah (i primi cinque Libri della Bibbia), osservando precetti come la dedica del sabato alla dimensione spirituale. Quando si stabiliscono nelle colonie che beneficiano di un riconosciuto status culturale da parte dei Romani, la loro condizione non è dissimile da quella di altri popoli che compongono il tessuto dell’Impero, composto da numerosissime altre espressioni culturali e religiose. Certo, ci sono casi di proibizioni temporanee, espulsioni o tensioni. Ma neanche questi momenti più drammatici modificano la condizione giuridica ebraica nel resto dell’Impero, che per tutto il III secolo rimane sostanzialmente stabile. Alle comunità viene riconosciuto il diritto di assemblea e la personalità giuridica, sinagoghe e cimiteri sono tutelati, e scuole, biblioteche, ospedali, ricoveri e mercati vengono favoriti. Gli ebrei romani sono perfettamente integrati nella società: fanno parte dell’Esercito, ​​lavorano nei pubblici uffici e nei diversi settori della produzione e della distribuzione delle merci, li troviamo perfino tra i mimi e i gladiatori. Ma anche custodi di antiche tradizioni, uniti da un calendario di rimembranze e celebrazioni che ne scandiscono lavoro, preghiera e riposo. Tant’è che già Filone segnala la loro fedeltà alle antiche leggi patrie, rispettate assieme a quelle delle città nella quale si vive, si lavora e si crescono i figli. Di più: pur non prevedendo una dimensione di proselitismo, la religione ebraica esercita una profonda attrazione e, nei secoli, anche il contributo letterario verrà considerato importante.

NASCITA CRISTIANESIMO

Il Cristianesimo diventa religione dell’Impero

Con il Concilio di Nicea del 325 e.v., i matrimoni misti sono proibiti e agli ebrei viene negata la possibilità di avere schiavi cristiani e pagani. Si aggiunge l’interdizione alle funzioni pubbliche e all’Esercito, mentre si diffonde l’idea che gli ebrei – gente perversa e contaminata – appartengano a una “setta” nefanda. In Oriente e in Occidente vengono distrutte o confiscate sinagoghe e una esasperata propaganda porta a numerosi attacchi alla popolazione ebraica. A volte, gli ebrei trovano degli illustri difensori – come Papa Gregorio I Magno (590-604), che nella bolla Sicut Judaeis afferma che essi non devono essere disturbati perché la conversione deve avvenire con la persuasione e non con la forza. Nel periodo compreso tra l’anno Mille e quello di istituzione del Ghetto di Roma, 98 Papi hanno con la Comunità un rapporto oscillante ma, nonostante tutto, la convivenza cittadina non è mai messa in pericolo: la posizione ufficiale segue la visione di Sant’Agostino, per il quale la Sinagoga deve essere subordinata alla Chiesa ma non distrutta in quanto testimone della fede dalla quale ha preso origine il Cristianesimo – situazione destinata a cessare alla fine dei tempi, con la riunificazione alla Chiesa e la redenzione degli ebrei. Da quel momento in poi, la permanenza degli ebrei a Roma è possibile solo grazie a una continua negoziazione della loro posizione in seno a una società, in generale molto violenta, trovando occasionalmente interlocutori disponibili anche fra le autorità ecclesiastiche.

IL MEDIOEVO

Il Medioevo: Le grandi discriminazioni

Durante il Medioevo, la presenza ebraica a Roma si concentra anche sulla riva opposta del Tevere, davanti all’Isola Tiberina: il ponte Quattro Capi, che la collega alla terraferma, prende il nome “Pons Judeorum” o “Ponte degli Ebrei”. Molti eventi traumatici per la città di Roma vengono in qualche modo attribuiti agli ebrei, con disordini popolari che provocano la morte di molti di loro. (La stessa dinamica che, dovendo o volendo individuare in qualcuno la causa di mali come la siccità o un’epidemia, si ripeterà nei confronti di tante, troppe donne, accusate di stregoneria e arse vive tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Seicento.) E questo anche se in assenza di una “linea” ufficiale: i Papi non sono contro o a favore della presenza ebraica, e il rapporto – legato a considerazioni teologiche, economiche e persino personali – rimane complesso. Mentre, di fronte ad altre realtà come l’omosessualità, tra il VI e il XV secolo si passa dall’equipararla all’adulterio all’intolleranza e, infine, alla pura ostilità. Per non dimenticare i lebbrosi, secondi nella persecuzione solo agli ebrei perché “marchiati” per punizione divina, gli stranieri perché una minaccia, gli infermi incurabili perché dominati dal Male e i bambini perché incapaci e dunque da ignorare o sfruttare. E neanche i Valdesi, perseguitati come eretici dalla Chiesa cattolica fin dai primi anni del Duecento – roghi compresi -, che si vedono proibire frequenza delle scuole pubbliche, esercizio delle professioni, possesso di beni immobili fuori dal “ghetto alpino” e culto consentito soltanto nei templi autorizzati. Una Comunità il cui destino si intreccia con quello degli ebrei d’Italia.  

I GHETTI

L’Istituzione dei Ghetti

Il 14 luglio del 1555, Paolo IV emana la bolla “Cum Nimis Absurdum” – uno sconvolgimento, che cambia il destino degli ebrei. Costretti a svendere i loro beni e rinchiusi. A Roma, in una sola strada. Luoghi angusti, malsani, nei quali può esserci una sola sinagoga. Proibita l’assunzione di nutrici o domestici cristiani, persino la conversazione con i cristiani. E anche ogni commercio, a eccezione di quello degli stracci: solo nel tempo riescono a ottenere concessioni in ambito economico e finanziario. Appena fuori dai cancelli del Ghetto vi sono chiese in ogni direzione e, dopo qualche anno, entra in uso la pratica delle prediche coatte, alle quali gli ebrei devono assistere ogni Sabato – il giorno a loro più santo – per prendere coscienza dei propri errori e convertirsi. Svariate descrizioni, soprattutto da parte di visitatori, riferiscono del sovraffollamento inimmaginabile, delle condizioni igieniche disastrose e della promiscuità del cosiddetto “serraglio degli ebrei”. Dall’istituzione del Ghetto deriva inoltre una speculazione immobiliare da parte di istituti religiosi e famiglie nobili, in seguito mitigata dall’introduzione dello jus gazagà (una sorta di equo canone). I pontefici successivi modificano le prime disposizioni: in positivo, come Sisto V, o in negativo, come Pio VI. Comunque, e nonostante alcune brevi interruzioni, il Ghetto durerà fino al 1870.  

REPUBBLICA ROMANA

Timidi segni di emancipazione

L’elezione di Pio IX nel 1846 coincide con la grande ondata liberale che sta attraversando tutta l’Europa. Il Papa nomina una commissione che esamina i reclami degli ebrei e permette loro di vivere anche in altri quartieri della città, mentre il capopopolo Ciceruacchio organizza una festa di fratellanza tra gli ebrei e i romani.  
Pio IX delibera l’abbattimento delle porte del Ghetto e, il 16 aprile 1848, le lacrime della Comunità sono di gioia. Gli ebrei possono avere degli esercizi commerciali, circolare anche di notte e persino entrare nella Guardia civica. Nel 1849, nel breve arco della Repubblica Romana che abolisce la segregazione e apre alla libertà di culto, alcuni dei loro esponenti partecipano al Governo civico – prendendo parte con slancio a questo effimero ma glorioso momento risorgimentale. A rendere la situazione più ingarbugliata sono trasteverini, monticiani e regolanti, che non approvano la decisione di Pio IX di abbattere le porte che di notte vietano l’entrata e l’uscita dal Ghetto. Alla loro opposizione, manifestata anche con aggressioni ed episodi di violenza, non mancano motivazioni più pragmatiche – anche se la spinta maggiore arriva dal pregiudizio.
Quasi tutti i progressi si dissolvono nel 1850 con la caduta della Repubblica e il ritorno dall’esilio di Pio IX, che ne annulla molti atti e ripristina la pena di morte e l’isolamento degli ebrei, pur mantenendo aperto giorno e notte un Ghetto ormai senza portoni. Nonostante precarietà e miseria, la popolazione degli ebrei romani sale a circa 5.000 persone. Le condizioni del Ghetto appaiono però sempre più inaccettabili, tanto da generare un dibattito nazionale. Per Pio IX, riconoscere i diritti civili agli ebrei significa accreditarsi come Pontefice riformatore e progressista davanti a un’opinione pubblica europea che, con la rivoluzione borghese, ha fatto degli enormi passi avanti. Dalla prospettiva dei Padri risorgimentali invece, nel periodo che corre tra la Rivoluzione francese e il liberalismo italiano, la soluzione della questione israelitica non è soltanto uno degli obiettivi programmatici ma anche uno degli elementi di verifica della portata del progresso civile del Paese che sta nascendo.  
Il momento più difficile è il “Caso Mortara”, che nel 1858 vede il battesimo forzato del piccolo Edgardo, il rapimento dalla propria famiglia e il suo trasferimento a Roma sotto la custodia papale, per essere allevato come cattolico. C’erano già stati dei battesimi di bambini ebrei strappati alle famiglie, ma il caso Mortara fece scalpore – per una maggiore sensibilità rispetto alla condizione degli ebrei ma anche per la crescente polemica anticlericale in funzione risorgimentale.  
La reazione indignata dell’opinione pubblica internazionale e della grande Stampa liberale, affiancata all’estero da voci di sacerdoti, non muta la decisione di Pio IX sul destino del piccolo Mortara, ma alimenta l’ipotesi dell’offensiva allo Stato pontificio. Dodici anni dopo, e meritandosi una Medaglia al Valore, alla presa di Porta Pia combatterà anche il Tenente dei Bersaglieri Riccardo Mortara, fratello di Edgardo.  

IL RISORGIMENTO

Gli Ebrei e il Risorgimento

“Si gettarono nella mischia come Ebrei e ne uscirono come Italiani”: questo il sentimento dei giovani delle comunità che si uniscono alla lotta dei patrioti. Finalmente, gli ebrei di Trieste, Livorno, Modena e di tutta la Penisola si sentono parte di un Paese che non li discrimina più. Il Risorgimento italiano permette a quegli uomini confinati e privati dei diritti fondamentali di combattere per un ideale di emancipazione, loro e della Nazione. Un’Italia unita e indipendente, per la quale battersi e – se necessario – morire. La partecipazione degli ebrei sia al Risorgimento, sia alla Grande Guerra del secolo entrante è considerevole: quando la Nazione ha bisogno di essere difesa, gli ebrei rispondono in massa e con valore, riconosciuto da un numero notevole di onorificenze. Più di una semplice alleanza tra gli ebrei e i patrioti laici e cristiani – in fondo, tra gli italiani. Con Giuseppe Mazzini c’è un vero e proprio scambio di valori: la Comunità vede in lui la speranza di esistere non come sussistenza bensì nella pienezza dei diritti e delle libertà civili; Mazzini, una fonte di profonda ispirazione – sufficiente a proporre una lettura risorgimentale della Bibbia, sintetizzata nel suo celebre “Dio e Popolo”. Ma anche con Massimo d’Azeglio che, nel 1848, pubblica a Firenze il saggio “Sull’emancipazione civile degli Israeliti”. Valori nuovi, espressi con forza anche verso la seconda più antica comunità sulla Penisola: quella dei Valdesi. Che festeggeranno il riconoscimento dei loro diritti civili e politici dal 17 febbraio 1848, data delle Lettere patenti del Re di Sardegna Carlo Alberto, seguite il 29 marzo dello stesso anno da un analogo provvedimento nei confronti degli ebrei. Sono in tanti a battersi per i diritti civili dei Valdesi e degli Israeliti – e lo dimostra una petizione del 23 dicembre 1847, primo firmatario Roberto d’Azeglio, al quale si aggiungono (tra altri 600) Camillo Cavour e 75 ecclesiastici cattolici. Il decennio 1860-1870 è assai travagliato. L’unificazione arriva nel breve spazio di due anni, come un fatto inatteso e improvviso nel suo realizzarsi. Vi è un grave problema politico di fondo (quello, fatta l’Italia, di “fare gli italiani”) e bisogna mettere insieme leggi, sistemi fiscali, monete, sistemi di misura ma anche mentalità, tradizioni e costumi diversi. Senza lasciare fuori quei “figli” che avevano pagato nei secoli il prezzo più alto. La conquista è imminente: il nuovo Stato liberale e laico, pronto alla pluralità dei culti e alla libertà religiosa, è alle porte di Roma.  

LA PRESA DI ROMA

Giacomo Segre e la Breccia di Porta Pia

Non sarebbe stato facile: la città era stata proclamata Capitale del Regno nel 1861, ma le successive prove di trasferimento delle carte e del Governo non avevano dato risultati. Caduto l’imperatore Napoleone III di fronte alla Prussia il 2 settembre 1870, l’entrata delle truppe italiane è da più parti considerata prossima. Vittorio Emanuele II chiede al Pontefice di accettare l’ingresso degli italiani a Roma ma, dalla città-simbolo del Cattolicesimo, il Papa intende mostrare al mondo intero la sua opposizione. Riusciti vani i tentativi negoziali, il 20 settembre 1870 il generale Cadorna attacca la città. Secondo una tradizione che non trova riscontro documentale, Giacomo Segre, il valoroso artigliere ebreo trentunenne viene scelto ad interpretare il compito più delicato per via della sua religione, indifferente alla scomunica papale già annunciata da Pio IX per chiunque avesse ordinato di aprire il fuoco sulla città. In realtà, le sue già comprovate capacità sono testimoniate sia dal Diario storico del Generale Cadorna, sia dalla memoria redatta dal Generale Luigi Pelloux – in quel momento, Comandante di Giacomo -, sia dalle parole del Generale Cosenz.  
Le Divisioni ricevono l’ordine di iniziare il fuoco subito dopo le 5, contro diversi punti delle Mura Aureliane. La V Batteria del Capitano Segre, incaricata del fuoco principale, viene posizionata nei giardini di Villa Albani, a 500 metri dal punto pensato per la Breccia. Alle 5:20, Giacomo dà l’ordine di attacco – all’inizio con fuoco cadenzato, poi per salve – e, subito dopo, alla sua azione si aggiungono la II e VIII Batteria. Alle 9:30 il varco è di circa 30 metri ma lui continua a colpire, per dare più spazio ai Bersaglieri in attesa. Dopo 888 colpi, la Breccia è sufficiente. “La V Batteria ebbe con i suoi tiri gli effetti più utili che si potessero immaginare… meritò gli applausi di quanti poterono osservare la calma, la tranquillità e il sangue freddo” (Pelloux). “Per quanto questa Batteria non dipendesse dai miei ordini, pur tuttavia, avendo avuto luogo di osservarla da vicino, mi sento il dovere di lodarne la bravura e la perizia per gli ammirabili effetti prodotti” (Cosenz). Verso le 10, appare la bandiera bianca. Purtroppo, mentre le truppe italiane si avvicinano, dei difensori pontifici aprono il fuoco – uccidendo il Maggiore Giacomo Pagliari e ferendo altri soldati. Il 12º Battaglione Bersaglieri suona la carica e, poco dopo, la bandiera bianca viene issata lungo tutta la linea delle mura.  

LA LIBERAZIONE

La Liberazione

Alle 17:30, 12 ore dopo il primo ordine del Capitano Segre, il generale Kanzler e il Capo di Stato maggiore Fortunato Rivalta firmano la Capitolazione. Il 20 settembre 1870 segna finalmente l’unione di Roma al Regno d’Italia, del quale diventa Capitale, portandosi dietro la completa equiparazione degli ebrei agli altri cittadini: un momento e un ricordo di esultanza per i Benè Romì, che in questa data celebrano la liberazione dai muri fisici e non. Quest’anno, per la 152° volta: 20 settembre 1870 – 20 settembre 2022. Il Generale Cadorna viene accolto con gioia da gran parte dei romani, che aveva già manifestato la propria insofferenza verso il potere papale. Il Corso è imbandierato a festa e le luminarie rimangono accese fino a tarda notte.  
Accanto all’esultanza del popolo romano, c’è quella della Comunità ebraica – che vede nella Breccia l’abbattimento di tutti gli ostacoli che, a 80 anni dalla Rivoluzione Francese, vietavano un’uguaglianza e una libertà identificate con il governo istituzionale del Regno d’Italia. Perché, nel 1870, la discriminazione esiste solo sotto l’ombrello del Papa: gli ebrei piemontesi erano emancipati fin dal 19 giugno 1848, con l’approvazione in Parlamento di una legge secondo la quale “la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all’ammissibilità alle cariche civili e militari” – disposizioni estese anche agli ebrei residenti nelle località in seguito annesse al Regno di Savoia. Il ricongiungimento della Città Eterna all’Italia ha dunque per la Comunità ebraica romana un significato e un valore ancora più profondo e più intenso, che – dopo secoli di concessioni seguite ogni volta da repressioni – mai avrebbe potuto ancora sperare. Cinque giorni dopo, il 25 settembre 1870, gli ebrei romani inviano un messaggio a Re Vittorio Emanuele II, offrendo al Sovrano “l’omaggio della loro immensa gratitudine”, e rivolgono il loro ringraziamento “come italiani, come romani e come israeliti”. Questa dichiarazione racchiude le coordinate della raggiunta pari dignità, basata sull’identificazione alla Nazione, l’integrazione civile e un ampio ridimensionamento dell’Ebraismo a semplice fede tra le altre, secondo l’orientamento già professato da molti ebrei europei emancipati. La nuova libertà innesca significativi processi di trasformazione e, pur con scarsi mezzi finanziari e limitati strumenti legislativi, nel periodo successivo alla chiusura del Ghetto la Comunità romana è percorsa da forti fermenti. Con la fine del potere temporale del Papato, la popolazione ebraica si diffonde in zone cittadine sempre più lontane dall’antico rione e si adegua ai tempi moderni, orientandosi verso professioni che soppiantano le vecchie (imposte o limitate) occupazioni. In poche parole, gli ebrei romani cercano di diventare uguali agli altri. Alcuni non ci riescono, continuando a vivere pressoché nelle stesse umili condizioni; altri, sì – guadagnandosi posizioni di rispetto nelle professioni e nella società.  

L'UNITÀ D'ITALIA

Il ricongiungimento con i cittadini di Roma

L’11 ottobre 1870, una deputazione di cittadini romani presenta al Re Vittorio Emanuele II i risultati del plebiscito che unisce Roma e il Lazio al Regno d’Italia. Tra i membri c’è Samuel Alatri – uno degli esponenti più autorevoli della Comunità ebraica romana, che più volte aveva perorato la causa degli ebrei nelle udienze accordategli da Pio IX. Due giorni dopo, il decreto di completa equiparazione degli ebrei romani agli altri cittadini viene pubblicato e, a novembre, Alatri e Settimio Piperno entrano in Campidoglio come consiglieri comunali. A soli due mesi dalla Breccia, nove ebrei verranno eletti al Parlamento dell’Italia Unita e, nel 1874, i deputati saranno undici. Consapevoli delle passate sofferenze ma anche fieri di averle superate, per l’ultima volta gli ebrei di Roma si dichiarano tali: d’ora in poi, ricorderanno questa distinzione solo nei Templi – perché i “figli di Roma”, prima di tutto, si sentono italiani e romani. L’uguaglianza li porta anche nel Corpo della Guardia nazionale, dove raggiungono degli alti gradi. Con un valore risorgimentale in più: il rispetto verso tutte le espressioni religiose – che fa sì che, in occasione del giuramento di alcuni ufficiali, si provveda ad assicurare una Bibbia ebraica. Nel frattempo, la storia degli ebrei della Penisola e della Capitale desta un accresciuto interesse: il Console francese esprime il desiderio di visitare la sinagoga e un Tenente di fanteria, commosso dalle “continue e basse persecuzioni di antisemiti fanatici contro il nobile popolo Israelitico”, si erge a suo paladino sebbene appartenente ad altra religione. A rimanere difficili sono i rapporti con i religiosi cattolici, che mal si rassegnano alla perdita della posizione di assoluta preminenza a lungo mantenuta e faticano ad adattarsi alla nuova situazione. In mezzo a tanto entusiasmo, di tanto in tanto si riaffacciano consuetudini vecchie di secoli e dure a morire: il 30 settembre 1879, un gruppo di popolani aggredisce gli ebrei di passaggio dalla Bocca della Verità, per accompagnare i loro morti al cimitero dell’Aventino, con un “comportamento tanto più indegno di uomini civili quant’è più ovvio il rispetto verso i defunti anche in mezzo ai popoli barbari”.

L’eredità della battaglia

A distanza di 152 anni, abbiamo tanto per cui essere grati e molto da riscoprire. Perché quello che oggi consideriamo normalità, dei diritti e delle libertà civili, non lo è stato per tanto tempo. Perché quel momento, fatto di coraggiosi che si batterono per tutti, è la nostra migliore anima – come persone, come italiani, come Nazione. Qualche decennio più tardi, la partecipazione ebraica anche alla Prima guerra mondiale sarà considerevole: nel momento in cui la Patria, alla cui costituzione la componente ebraica aveva risposto con entusiasmo, ha bisogno di essere difesa, gli ebrei rispondono in massa, riportando un numero notevole di onorificenze. Purtroppo, il pregiudizio antiebraico non muore con il Risorgimento ma – tempo due generazioni – si trasforma in antisemitismo. Nel 1938, sarà Vittorio Emanuele III, il Re che aveva inaugurato il Tempio Maggiore nel 1904, a siglare le infami Leggi razziali. Quanto diventa prezioso ritornare al lascito dei Padri risorgimentali e dei tantissimi che si alzarono insieme, anche al prezzo della propria vita, per l’equità, il reciproco rispetto e la piena cittadinanza? Un’appartenenza che, per i “figli di Roma” e d’Italia, da quel 20 settembre può finalmente esprimersi appieno. Dalle Arti alla Scienza, dalle vecchie e nuove maestranze alle professioni, dal Parlamento alle amministrazioni locali, per 152 anni l’elenco è lungo e di valore. In alcuni casi, di pubblico riconoscimento e onorata memoria; in altri, sconosciuto o dimenticato: quanti di noi, passeggiando per Roma, sanno ancora che il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia, il percorso archeologico tra l’Aventino e il Celio e persino lo stadio Flaminio sono stati voluti e inaugurati sotto il secondo mandato dell’ebreo Ernesto Nathan, “il miglior Sindaco di Roma”, che raccoglie l’eredità mazziniana e, in soli sei anni, cambia il volto della Città? Oggi, sentire nostri e vivere pienamente i valori risorgimentali è il miglior modo di onorare quel momento di altissima dignità riconoscendo un ruolo a tutti i suoi generosi attori. In particolare quelli che ne avevano pagato – e ne pagheranno ancora purtroppo – il prezzo più alto: i Benè Romì, i figli di Roma e gli ebrei d’Italia.